I vostri Contributi

06-09-2017 14:12:47 Se un giorno d'estate un viaggiatore

SE UN GIORNO D'ESTATE UN VIAGGIATORE
Alcatraz: il passato lontano (e un pensiero sul presente vicino)

Se un giorno d’estate un avvocato italiano, nella fortunata occasione di una vacanza nel profondo ovest degli Stati Uniti d’America, decidesse di andare a dare un’occhiata al carcere più famigerato di sempre, il penitenziario di Alcatraz, il suo atteggiamento sarebbe quello dell’europeo civilizzato che si avventura nella barbarie del nuovo mondo.
Roba vecchia, certo: la prigione di Alcatraz è stata chiusa nel 1963. Ma guarda qui che scempio dei più elementari diritti umani si compiva nell’America di non troppi anni fa, pensa l’europeo col sopracciglio alzato. Che luogo sinistro, che orrore già l’approdo sull’isola che, pur nella splendida posizione in mezzo alla baia di S. Francisco, con vista sul Golden Gate, si presenta arcigna e puzzolente, ricoperta dal guano dei gabbiani che strillano fino a rompere i timpani. La struttura del carcere fa impressione: praticamente una fortezza in mezzo al mare, battuta dai venti e spesso immersa nella nebbia della baia. Non a caso ribattezzata “The Rock”.
Non parliamo, poi, dell’interno: nella sala delle docce, enorme, senza pareti divisorie come quelle dei lager, ristagna ancora oggi l’odore acre del disinfettante; poi la lavanderia dove solo pochi fortunati “inmates” erano ammessi a lavorare, il magazzino della biancheria e delle divise dei detenuti, l’area per i colloqui con i familiari, con vetro divisorio e citofono. La sezione di detenzione ordinaria presenta file sovrapposte di minuscole celle singole, ciascuna con lo spazio minimo per una branda, il lavandino, la tazza del water e una mensola. Un detenuto, stando in piedi con le braccia allargate, poteva toccare entrambe le pareti. Il famigerato “D-Block”, il braccio dell’isolamento, dove venivano rinchiusi gli ospiti meno docili, è ancora peggio: celle ancora più spoglie, dalle quali i detenuti non potevano uscire mai, nemmeno per l’ora d’aria; solo una volta alla settimana potevano stare, da soli, nel cortile.
Ce ne sono stati di famosi; il più celebre? Alphonse “Scarface” Capone, ospite qui dal 1934 al 1939. E poi il gruppetto della fuga raccontata nel famoso film, capeggiata da Frank Lee Morris. Nessuna esecuzione fu mai compiuta qui, Alcatraz non aveva un “braccio della morte”. Ma gli episodi sanguinosi non mancarono: tra tutti la “battaglia di Alcatraz” del 1946, quando durante il tentativo di fuga di Bernard Paul Coy furono uccisi due guardie e tre detenuti.
Nei 29 anni in cui il carcere federale di Alcatraz fu operativo (dal 1934 al 1963: prima, dalla metà del XIX secolo, era stato una fortezza a difesa della baia), trentasei detenuti tentarono la fuga (inclusi due che tentarono di scappare due volte) in quattordici diverse occasioni. Ventitre furono catturati, sei uccisi e due annegarono. Solo i cinque della famosa fuga del 1962 non furono più ritrovati, ma il loro destino è ignoto.
Tanta smania di fuggire da Alcatraz si spiega soprattutto con le durissime condizioni di detenzione. “Chi viola le regole va in carcere; chi viola le regole del carcere finisce ad Alcatraz”: questa la massima amena diffusa dalle autorità americane.
Alcatraz era il braccio violento della giustizia: era la punizione cieca, la spietata risposta al reato, nient’altro che questo.
L’avvocato italiano ascolta scandalizzato l’audioguida che riporta il discorso di benvenuto che faceva il direttore ai nuovi giunti, una volta spogliati, sottoposti a ispezione e forniti di divise, nel consegnar loro una copia delle “Institution rules and regulations" con le regole del carcere: “Avrete diritto a vitto, alloggio, indumenti ed assistenza sanitaria. Tutto il resto consideratelo un privilegio”.
Termini come “dignità”, “umanità”, “rieducazione”, “trattamento” non appartenevano, evidentemente, al vocabolario di Alcatraz. Solo afflizione, privazione, vendetta; oltre al distacco dal mondo, regole innumerevoli, rigide, crudeli e spesso illogiche. Nessuna possibilità di immaginare un futuro.
Meno male che poi si torna.
Ci si lascia alle spalle questo passato inquietante e questo paese in cui la giustizia, ancora oggi, ha la mano pesante e il tasso di carcerazione è altissimo.
Si torna in Italia, dove da più di quarant’anni un ordinamento penitenziario all’avanguardia pone la rieducazione, attraverso il trattamento individualizzato del detenuto, al centro dell’attenzione nel sistema Giustizia. Dove un ministro dal pensiero illuminato ha costruito, attraverso gli stati generali dell’esecuzione penale e poi la nomina delle commissioni che daranno attuazione alla delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, un progetto per andare avanti, per andare oltre, per saltare i muri del carcere, dove non siano assolutamente necessari; per garantire alle persone recluse la dignità, prima di tutto, e la salute e la speranza. Dove, però, tra le prime notizie su cui l’avvocato italiano getta l’occhio distratto del rientro, spicca l’onda furibonda e vendicatrice seguita agli stupri di Rimini. E, in evidenza nella rassegna stampa che si apre ogni giorno sul PC, c’è il dato dei 40 morti suicidi dall'inizio dell'anno nelle carceri italiane, con 567 tentativi di suicidio e 4.310 atti di autolesionismo. Sulla scrivania, tra le carte impilate da guardare, un’istanza urgente al magistrato di sorveglianza ancora senza risposta dopo un mese, perché in carcere c’è un solo educatore per tutti i detenuti e in agosto è in ferie.
Con una telefonata dall’Albania si chiedono notizie del ricovero in ospedale di un detenuto; è una persona in carcere da quindici mesi per essere stato sorpreso con un quantitativo di eroina: 1,46 grammi di sostanza pura (ma ha un precedente specifico e i giudici hanno ritenuto che sia troppo alto il rischio di reiterazione del reato per scarcerarlo); il fratello l’ha saputo dal parente di un compagno di cella. Il difensore, che nessuno ha avvisato, si impegna a informarsi immediatamente sul motivo del ricovero: potrebbe essere grave! No, avvocato, è la risposta dal carcere, non possiamo dirle niente: motivi di privacy.
E’ bello essere di nuovo a casa.
Stefania Amato