I vostri Contributi

26-09-2017 16:00:39 La difficile navigazione del rito accusatorio

Nel corso del convegno sullo stato del processo accusatorio, organizzato a Mantova in occasione dell’assemblea annuale della Camera penale distrettuale della Lombardia Orientale, Paolo Ferrua, con la consueta chiarezza e profondità, ci ha ricordato che la difficile vita del modello accusatorio nel nostro sistema processuale è cominciata fin da subito dopo la sua entrata in vigore, perché il codice appena nato fu affidato ad una magistratura, nella sua maggioranza, culturalmente ostile al modello accusatorio quale strumento di accertamento del fatto di reato. Ne sono testimonianza le numerose eccezioni di incostituzionalità sollevate nei primi anni di vita (praticamente su quasi tutti gli articoli), e le note sentenze della Corte Costituzionale degli anni 90’che hanno demolito il sistema accusatorio, poi a fatica parzialmente recuperato con l’inserimento in Costituzione dei principi sul giusto processo.
Non voglio ripercorrere le ragioni di questa contrarietà culturale, è sufficiente ricordare l’ ammissione del procuratore generale presso la Corte di Cassazione, dott. Jacoviello, in una tavola rotonda, sempre a Mantova, nella quale il magistrato non ebbe difficoltà ad ammettere che la nostra magistratura esprime in prevalenza uno spirito conservatore, tendenzialmente contrario ad ogni tentativo di riforma in senso garantista del processo: in ciò sorretta da larghi settori dell’opinione pubblica, per la quale il sistema delle garanzie è da tempo compendiato nel termine peggiorativo “garantismo”.
Piuttosto, vale la pena di riflettere su un ulteriore interrogativo: fin dove può spingersi la personale contrarietà del magistrato al modello accusatorio (opinione che, in quanto tale, è assolutamente legittima) senza produrre risultati distonici rispetto al dovere di applicare la legge, senza cioè costituire violazione del giuramento di fedeltà che anche i magistrati, così come gli avvocati, prestano all’atto della assunzione delle funzioni? E poiché il (nuovo) codice ha innovato profondamente (rispetto al codice del ´30) l’intero sistema di indagine, di assunzione delle prove e di formazione del giudizio, quanto è lecito per un magistrato condurre un processo celando sotto le forme del nuovo i vecchi parametri di assunzione e di valutazione della prova? Fin dove l’opinione personale sulla inopportunità o inutilità della norma influisce, anche inconsciamente, sul difficile compito che il magistrato svolge?
Nessun magistrato ammetterà mai una violazione intenzionale della legge ritenuta inutile o inefficace ed è probabile che ciò avvenga in un numero ristretto di casi, trattandosi il più delle volte di applicazione della norma processuale secondo un’interpretazione che consente di raggiungere per altra via il risultato che la espressione letterale della regola sembra escludere.
Il limite esterno, oltre il quale ciascun magistrato sa di non poter andare, credo stia nella fedeltà all’obbligo del rispetto della legge, di quella processuale non meno che di quella sostanziale, quale che sia la sua personale opinione. Il limite interno credo debba individuarsi nella volontà del singolo di tenere distinta la propria opinione sulla regola dalla sua applicazione, e dunque, fondamentalmente, nella scelta etica di interpretare la norma secondo il criteri dettati dalla legge, prescindendo completamente dalla propria convinzione.
E’ concretamente e realisticamente esigibile tutto ciò? O forse non assistiamo al lento declino dei criteri di interpretazione scanditi nell’art. 12 delle preleggi a favore di un ricorso sempre più frequente al precedente ed alle massime della Corte di Cassazione, spesso addirittura trascritte nelle decisioni?
In tutto questo all’avvocato quale compito spetta? Quello di verificare e richiedere che le norme processuali siano rispettate secondo il modello delineato dalla legge: il che significa, prima di tutto, non prestare acquiescenza alla violazione della norma processuale (penso, ad esempio, alla corretta applicazione della regola di acquisizione al fascicolo dibattimentale di atti del fascicolo delle indagini ove il fatto in essi descritto sia correttamente ricostruito, non sia controverso e non siano necessari approfondimenti, cosa ben diversa dalla acquisizione degli atti per ragioni di “celerità”).
Forse, pretendendo il rispetto del percorso cognitivo fissato dal codice, il magistrato sarà costantemente chiamato a confrontarsi con la legge e, forse, potrà essere meno indotto a seguire scorciatoie cognitive secondo le sue personali convinzioni rispetto al modello accusatorio.

La seconda interessante riflessione di Ferrua si incentra sullo strumento attraverso il quale il potere giudiziario (perché qui l’Ordine si trasforma in Potere) può mutare il significato della norma, fino allo stravolgimento del suo significato originario: la interpretazione creativa.
L’interpretazione creativa è quella attraverso la quale si fa dire alla norma ciò che la norma letteralmente e semanticamente non dice.
Il fenomeno non è nuovo e nella storia si incontrano esempi eclatanti di come l’ordine dei magistrati ha continuato ad interpretare la legge secondo proprie inclinazioni, fino a stravolgere completamente il senso originario della disposizione normativa.
Nella nostra giurisprudenza i casi d’interpretazione creativa sono numerosi: ad esempio, nel codice non sta scritto che se il capo d’imputazione è lacunoso ed impreciso la nullità espressamente prevista produce l’invalidità di tutti gli atti successivi soltanto se l’indeterminatezza ha impedito all’imputato di difendersi, eppure la giurisprudenza di legittimità continua a respingere le richieste di annullamento delle sentenze di condanna, pur riconoscendo l’imprecisione originaria del capo d’imputazione, una volta constatato che l’imputato si è comunque difeso nel processo.
Il fenomeno è di certo favorito da una legislazione scritta male, talvolta volutamente ambigua, che affida all’interpretazione del magistrato la soluzione di problemi sui quali le forze politiche non sono state in grado di trovare una accordo utile a produrre un testo chiaro e risolutivo.
Ed è difficile esigere dal singolo magistrato l’assoluto rigore quando anche la Corte di Cassazione, anche a sezioni unite, introduce nell’interpretazione della norma elementi che la norma non contiene affatto. Un esempio? Nella recente sentenza sulla specificità della impugnazione, con un articolato ragionamento teso a giustificare il massimo rigore nella valutazione di ammissibilità dell’impugnazione, la Corte afferma che per specificità si deve intendere (oltre all’indicazione di capi e punti, già esplicitamente richiamati nell’art. 581 c.p.p) anche l’indicazione del passaggio argomentativo con il quale il giudicante ha giustificato la scelta interpretativa sullo specifico punto, cosa che la legge di certo non prevede. Ancora: nella valutazione di ammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 606.3 c.p.p. la Corte si è letteralmente inventata la manifesta infondatezza consistente nell’essere la questione interpretativa dedotta già decisa con giurisprudenza costante, così trasformando l’applicazione del diritto nella applicazione della giurisprudenza.
Di fronte all’interpretazione che “aggiunge” alla norma qualcosa che nella norma non sta scritto esiste un rimedio? Cosa può (deve) fare l’avvocato?
Oltre a redigere atti d’impugnazione con elevato standard di qualità - “l’appello avverso una sentenza non si scrive la sera prima della scadenza del termine” ha sottolineato Giorgio Spangher, pure relatore al convegno – all’avvocato spetta il compito di eccepire e denunciare, con i mezzi consentiti, la violazione di legge insita in ogni sentenza creativa.
Soltanto in tal modo è possibile affermare il primato della legge sull’interpretazione creativa e, con esso, il primato del codice che è anche nostro compito difendere dalle onde che ne ostacolano la navigazione.
Brescia, 25 settembre 2017
Eustacchio Porreca