I vostri Contributi

01-10-2017 18:44:49 Dalla gogna mediatica dell'imputato a quella della vittima

Fino ad un certo momento (al limite dell'accettabile), pensavamo di non scrivere in merito ai fatti di violenza sessuale accaduti a Rimini (quella ignobile violenza commessa ai danni di giovani ragazzi), temendo di rimanere intrappolati nella maglia di commenti che celano, dietro al rimprovero all’aggressione, la solita strumentale protesta politica sulla questione “rifugiati” con toni di razzista ideologia (come se tutti i mali del nostro Paese sbarcassero dalla coste meridionali con i barconi dei disperati; Ellis Island - evidentemente - non ha insegnato nulla ai fieri italiani).
Il nostro dovere non è certo quello di intervenire su fatti balzati all'onore (o, meglio, in questo caso, al disonore) della cronaca, ma invece quello di far sentire una voce controcorrente in tutti i casi in cui il diritto di cronaca subisce la sua radicale metamorfosi e si trasforma in mero veicolo di sentimenti di odio e di vendetta del popolo per sfogare le frustrazioni di una vita sociale senza ormai solidi punti di ancoraggio. Ben scrive (solo in questa parte, per il resto l'autore mostra di non conoscere la finalità di un processo penale) Gian Antonio Stella, che nel proprio contributo "Mai indulgenza per gli stupratori" attesta questo fenomeno, criticando sensibilmente la diversità di attenzione che il fatto di Rimini sta ricevendo rispetto ad altri e analogamente gravi episodi di violenza sessuale compiuti da italiani. "Sbalordisce - osserva il giornalista - l'abissale differenza di spazio sulle prime pagine, di indignazione e di editoriali rispetto agli stupratori della ragazzina quindicenne di Pimonte, provincia di Napoli, violentata nel luglio scorso da undici (undici!) ragazzi italiani".
Ora, come è possibile tacere di fronte alla pubblicazione da parte dei quotidiani delle testimonianze delle vittime nella descrizione delle parti più drammatiche dell’aggressione? Il lettore ha potuto “apprezzare” la descrizione minuziosa della violenza sessuale inflitta alla vittima, esponendo quest’ultima alla stessa nudità e brutalità di gesti.
Come si può non avvedersi della gravità che deriva da tali scelte di redazione, conseguenza comunque della dilagante tendenza a spostare i processi dalle loro sedi naturali, celebrandoli – in via anticipata – e coralmente attraverso la formazione di giudizi di “morale” disappunto nella collettività?
E - si badi- ormai ci siamo resi conto che il nostro mondo deve adattarsi alle logiche della moderna comunicazione: che i processi non possono non avere, per la forza di propagazione delle notizie, per la curiosità che l’uomo tende ad avere del “male” che lo circonda, una cassa di risonanza aperta all’esterno, al punto da doverci noi stessi “attrezzare” nell’imparare la nuova arte della comunicazione mediatica senza violare i doveri professionali.
Tuttavia, la vicenda di questi giorni ci suggerisce solo un'istintiva repulsione per questa nuova deriva del già discutibile processo mediatico.
Non possiamo accettare che interi verbali di testimonianze siano pubblicati a pochi giorni dalla loro redazione, senza alcun filtro e in totale dispregio delle norme che impongono il segreto istruttorio. Non possiamo dimenticare che il nostro ordinamento è costituito da norme poste a garanzia dello svolgimento di un “giusto processo”, a tutela di un diritto di difesa di colui che quel processo lo subisce, ma anche a tutela della stessa persona offesa che in quel processo riversa aspettative di riparazione.
Rammentiamo agli ipocriti che, nella immediatezza dei fatti, hanno tenuto a commentare il grave stato di shock della persona offesa, per poi dimenticarsene istantaneamente pubblicando particolari imbarazzanti per mere esigenze giornalistiche, nonché a coloro che consegnano quegli atti con estrema leggerezza, che il processo mediatico in una forma così degradata non si è mai visto prima e rappresenta una grave forma di inciviltà.
Esso si manifesta in una forma di sostituzione corale del Popolo al Giudice attraverso la messa al bando di comportamenti non certo per la loro naturale indegnità, quanto per un insano bisogno di sostituirsi, appunto, alla Giustizia.
E quel che è peggio è che la condanna a morte (auspicandone il ripristino) passa attraverso la esposizione alla pubblica gogna non solo degli autori dei misfatti, ma anche, secondo appunto quest'ultima degradata forma di processo mediatico, delle povere vittime e dei loro familiari.
Ci rivolgiamo ora ai difensori.
Dal primo giorno dell’arresto dei presunti responsabili di questa triste vicenda, si è assistito ad un moltiplicarsi di articoli, molti dei quali notizie fake: si pensi alla denunciata rinuncia dei difensori d’ufficio nella procedura instaurata avanti al Tribunale per i Minorenni, mai avvenuta, che ha suggerito nel lettore l’erronea convinzione che il difensore d’ufficio possa rinunciare ad un mandato che per sua natura è obbligatorio, solo sulla base di una repulsione verso il titolo di reato per il quale il suo assistito è chiamato a processo.
Si pensi ai difensori che da qualche giorno ricevono epiteti di ogni genere, attacchi non solo al loro ruolo professionale, ma altresì alla loro persona: colei che difende nel processo l'imputato maggiorenne, oltre alla colpa di far il proprio lavoro, deve rispondere alla collettività di una scelta incomprensibile d’assistere come donna uno stupratore.
Viene accerchiata dalla stampa dai primi minuti del suo incarico, rende dichiarazioni su una difesa tecnica soltanto abbozzata, e, per tale ragione, viene imputata di non credere ella stessa alla innocenza del proprio assistito (sic!) e alla sua spontaneità narrativa. Quel difensore si trova a dover giustificare il proprio lavoro di avvocato donna, si trova a subir insulti e minacce.
Non possiamo che constatare un superamento dei limiti di tolleranza: quel singolo difensore rappresenta ognuno di noi, l’attacco al suo lavoro è un attacco alla nostra professionalità, alla nostra serenità lavorativa, all’alta funzione sociale del nostro mandato.
Lo abbiamo detto più volte e lo ribadiamo oggi: la deriva "giustizialista", di cui il processo mediatico è l'espressione più evidente, deve essere fermata attraverso una progressione culturale di tutti, non solo del popolo, come se quel popolo fosse qualcosa di distinto rispetto a noi, ma di tutti, di tutti noi.
Ed allora ognuno di noi deve contribuire ad educare, a costruire un codice di comportamento ed un nuovo linguaggio che tengano in considerazione la nuova “faccia” del processo nella sua potenziale conoscibilità esterna.
Solo attraverso un diverso approccio verso il mondo che ci circonda, nel quale l'odio e la vendetta non siano al centro dei nostri pensieri, ma la Giustizia, si potrà isolare anche quella forma di giornalismo che, nascondendosi dietro la necessità di un diritto di cronaca, pubblica notizie esorbitanti il dovere di comunicare, esponendo la fragilità di una vittima ad una morbosa curiosità, costringendo quel soggetto indifeso a leggere negli occhi di tutti il racconto del dramma patito.

La Redazione della Pagina Facebook della Camera Penale di Brescia:
avv. Michele Bontempi, avv. Andrea Cavaliere, avv. Andrea Vigani, avv. Melissa Cocca, avv. Cristina Fratelli, avv. Simonetta Geroldi, avv. Elena Giacomelli, avv. Francesca Pontoglio