I vostri Contributi

01-07-2018 23:59:49 22- 24 giugno 2018: Il viaggio a Pianosa della Camera Penale di Brescia

“IL BELLO RIEDUCA”

Incontro, questa la parola che meglio sintetizza il nostro viaggio a Pianosa.
Incontro con la guardia penitenziaria che ogni mattina aspetta sul molo i visitatori della giornata, perché a Pianosa, in estate, arriva un solo traghetto al giorno, in inverno uno solo per settimana.
Incontro con le pochissime persone che stabilmente risiedono sull’isola e vivono ogni giorno quella solitudine che cala sulla terra dopo che la nave ha portato via i visitatori della giornata.
E incontro con i detenuti: gente che su Pianosa scambi per lavoratori comuni, ma che nello sguardo e sulla pelle nascondono ancora i segni di un passato complicato.

Inevitabilmente il nostro soggiorno si è incrociato con le loro storie e questo contatto umano ha reso il viaggio unico ed indimenticabile.

L’arrivo sull’isola dà la sensazione di sbarcare su un piccolo pianeta lontano dal nostro.

Un viaggio strano il nostro, tante le emozioni: lo stupore per i colori luminosissimi della natura; la malinconia per quel senso di abbandono che case, strutture del carcere e della colonia agricola denunciano violentemente; l'ammirazione per la passione che mostrano coloro che lavorano al progetto di recupero dei detenuti e dell'isola (accorpata all'Arcipelago toscano); la commozione e la speranza per questi reclusi che giorno dopo giorno, attraverso il lavoro e il contatto con l'esterno, rafforzano la propria autostima ed intravedono un futuro nuovo.

Vi racconteremo una sola di queste giornate, la più intensa e intorno alla quale sono ruotate tutte le emozioni che vi abbiamo sopra descritto: vi racconteremo il nostro ingresso alla sezione Agrippa del carcere di Pianosa.

Ore 9.45 incontro alla piazza della Chiesa.

Ci aspetta un uomo in bicicletta, deve accompagnarci nel luogo riservatoci per il convegno e mentre svolge il suo compito tra le vie sterrate dell'isola inizia a parlare di Pianosa, del progetto di cui fa parte e del suo lavoro.
Lui è affidato all'area agricola e al recupero di una zona di terra molto vasta, ove al tempo della colonia agricola vi era un pollaio razionale tra i più grandi di Italia: qui si è ora realizzato un orto biologico (non si usano concimi), si produce frutta e verdura distribuita poi tra più utilizzatori finali (anche ristoranti).
Parla volentieri quest’uomo, fiero del suo lavoro e di essere parte di questo progetto: qui lui riesce a non sentirsi inutile, riesce a usare il tempo senza farlo scorrere via senza un senso. Riesce a vivere una quotidianità di formazione e a sperare in un futuro.
Molte le confidenze regalate ai suoi ospiti non senza commozione, come il ricordo del suo primo colloquio all'aperto con la madre, a pranzo insieme.
Privilegi? No, dignità di un detenuto.

Ore 10.00 inizio convegno. Non vi tediamo con il racconto dei pregevoli interventi degli oratori: vorremmo solo trasmettervi l’atmosfera unica che che ci circondava nel parlare e ascoltare mentre intorno a noi non c’erano pareti, lampade al neon e aria viziata, ma solo campi luminosi, i rumori di attrezzi e aria dal profumo mediterraneo.

Ore 11.30 ingresso alla sezione Agrippa. Ci accompagna Michele, una guardia penitenziaria che era presente già negli anni dal 92 al 97, è lui che apre il cancello sotto l'occhio vigile del Dr. D'Anselmo, direttore del carcere di Porto Azzurro, a cui va il nostro ringraziamento.

Due le porte metalliche interne, Zante e Pegaso: una conduceva alla zona destinata ai detenuti brigatisti, l'altra ai mafiosi.
Strana l’atmosfera che ci avvolge, questa volta è pesante e non profuma, l’aria è ferma, quasi stagnante; anche se è immediato un senso di abbandono - le mura portano i segni del tempo e della umidità - le celle e i pesanti cancelli raccontano ancora la storia di questo posto; raccontano di una dura quotidianità fatta di stanze anguste e di letti in ferro; raccontano di bagni in angoli strettissimi, con una turca e un piccolo specchio dalla cui parte opposta le guardie controllavano il detenuto anche durante tale intimo momento.
Raccontano di lunghi silenzi, quelli dei detenuti che rimanevano ore e ore nelle loro celle e che non potevano parlare nemmeno con qualcuno della cella accanto; quello delle guardie carcerarie, poiché anche a loro era impedito "conversare", potendo parlare ai detenuti solo per le incombenze connesse al loro controllo.
Controllo che avveniva più volte durante la giornata, entrando nelle celle e battendo il ferro si controllava che tutto fosse in ordine e i detenuti, i mafiosi, si facevano trovare pronti in piedi accanto al loro letto. Sempre lì, tranne per un'ora d'aria in un cortile stretto dalle alte mura in cui si vedeva il cielo, il cielo di una terra di cui i detenuti non conoscevano nemmeno il nome, poiché trasferiti in quel carcere all'oscuro della loro destinazione.
Noi siamo stati in quel cortile: il sole ci colpiva senza alcuna protezione e seppur fossimo all'aria aperta, in un cortile comunque non piccolissimo, la sensazione che abbiamo provato è stata quella di sentirsi comunque al chiuso, in trappola.

Abbiamo visitato l'infermeria e lì, dimenticati non si sa per quale ragione, abbiamo rinvenuto i vecchi registri giornalieri delle visite: nomi di detenuti, anamnesi, diagnosi vergati da pugni diversi.
Curiose alcune delle frasi lette: si trovano battute, come quella del medico che alla collega entrante di turno lascia scritto "resisti, stai calma!" o semplici (e drammatiche) constatazioni "l'ecografista ha perso il traghetto, le visite non potranno essere effettuate"!!!!!

Siamo passati nella zona dei colloqui e lì abbiamo verificato come avvenivano i contatti con i familiari e con gli stessi difensori: un vetro stretto e di grande spessore divideva il detenuto dal suo interlocutore e la conversazione avveniva attraverso vecchi telefoni a dischi posizionati sul banco. Nessun contatto, solo una voce alterata dalla trasmissione di quei telefoni snaturati dalla loro funzione primaria che è di avvicinare le persone.

Abbiamo visto la zona isolamento, lì ci finivano i detenuti che dovevano essere condotti in terra ferma per qualche processo, ma soprattutto coloro che avevano trasgredito a qualche regola, che poteva anche esser semplicemente aver parlato con un vicino di cella.

In queste mura, le due guardie carcerarie si muovono come se appartenessero ancora a quel passato e rammentano la fatica: stare lì non era facile e gli agenti che venivano collocati all'Agrippa non potevano starvi più di un mese consecutivo; i lunghi silenzi e il controllo ininterrotto dei detenuti era lavoro che solo chi aveva una stimata professionalità poteva sopportare.

Ore 13 le guardie ci fanno uscire e il cancello viene nuovamente richiuso. Chissà chi dopo di noi tornerà qui per una visita e chissà chi ci è venuto prima?

Gli agenti di polizia ci riaccompagnano alla zona di partenza: in qualche modo anche loro sono dei sopravvissuti e ormai sono legati a questa isola.
Un'isola di una bellezza particolare, di un fascino destabilizzante, ove libertà e detenzione sono facce delle medesima medaglia, non solo per chi è veramente recluso, ma anche per chi soggiorna costretto a permanere in una zona ristretta dell'isola ove il tempo sembra essersi fermato.

Di questi posti portiamo a casa il bello, non solo della natura, ma il bello delle persone, di questi uomini che denunciano le loro debolezze e che raccolgono questa esperienza come una opportunità preziosa; portiamo a casa il loro grazie, per esser stati con loro senza pregiudizio e per aver ascoltato le loro storie; portiamo a casa una convinzione, che la fiducia e il sostegno a questi reclusi soccorrono maggiormente che una cella fredda ed angusta durante la fase risocializzante della pena.

Portiamo a casa la percezione che il silenzio non educhi, ma inaridisca: quest’isola ha bisogno di farsi conoscere. Quei detenuti hanno bisogno del contatto esterno perché solo così il loro lavoro non sarà vano.
La loro rieducazione passa anche attraverso l'accoglienza, attraverso l'azzeramento dei pregiudizi, attraverso l'annientamento della paura.

Non si vince il male con il male, ci dice il nostro accompagnatore/recluso e il bello serve, rinforza il Dr. Anselmo, perché "il bello rieduca".

Oggi, dopo questo viaggio, possiamo dire di averlo costatato anche noi.

Porteremo per sempre Pianosa con noi.

(A cura della redazione della pagina Facebook della C.P. di Brescia)