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10-11-2014 19:48:23 avvocato full-time....

pubblichiamo un articolo apparso il 6 novembre scorso sul dorso bresciano del Corriere della sera a firma Stefania Amato, presidente della Camera penale di Brescia.
Per dirla riduttivamente, si tratta di un articolo sulla condizione dell'avvocato donna in Italia... leggendolo, capirete che si tratta di qualcosa di più!

Il Presidente Napolitano ha nominato due nuovi giudici della Corte Costituzionale. Uno è una donna: Daria De Petris, docente di diritto amministrativo e rettore dell’università di Trento.
Questa è la buona notizia.
Quella cattiva è che… questa è una notizia!
Dal 1955, anno di insediamento della Corte Costituzionale, su 104 giudici ci sono state solo tre donne, tutte di nomina presidenziale, mai nessuna nominata dal Parlamento. Daria De Petris è la quarta e per la prima volta due donne siederanno stabilmente nello stesso collegio, composto da 15 membri. A meno che il Parlamento, quando finalmente uscirà dallo stallo di questi mesi, non ci sorprenda con una nuova nomina al femminile. Dobbiamo però chiederci che fine abbia fatto il principio delle pari opportunità di genere, previsto dall’art. 51 della Costituzione e da numerose norme di legge. E soprattutto dovremmo domandarci perché, nel 2014, la presenza femminile sia così scarsa nei ruoli di rilievo in cui la legge non arriva ad imporla con la forza (le quote rosa costituiscono un’imposizione di cui si farebbe volentieri a meno, se non fossero un male necessario).
Per restare nell’ambito della giurisdizione, è ancora molto scarsa la presenza femminile negli incarichi dirigenziali della magistratura. Sebbene si registri un trend di crescita, ancora meno del 20% di chi ricopre incarichi di dirigente di uffici giudicanti è donna; negli uffici inquirenti siamo intorno al 10%. Attualmente al Consiglio Superiore della Magistratura siede solo una donna fra i sedici membri togati eletti dai colleghi magistrati. Non va meglio tra gli avvocati: su 26 membri del Consiglio Nazionale Forense solo due sono donne. Le donne presidenti di Consigli dell’Ordine non raggiungono la ventina (meno del 10%). Questi numeri risultano clamorosi se si pensa che ormai le donne che si laureano in giurisprudenza sono più numerose degli uomini (rispecchiando la percentuale generale dei laureati, che sono donne per il 60% circa); un numero maggiore di donne supera l’esame di Stato per l’iscrizione all’albo degli avvocati e sono donne circa il 65% dei vincitori degli ultimi concorsi in magistratura.
Perché questa eclatante distonia tra una presenza femminile così massiccia nelle professioni forensi ed una rappresentanza così ridotta nei ruoli di rappresentanza e di maggior responsabilità? Non ho certo la presunzione di trovare una risposta univoca; vorrei però condividere una riflessione che nasce dalla mia esperienza personale di avvocato e da quella di tante colleghe.
Può esistere certamente una componente di auto-esclusione di alcune professioniste da ruoli che, implicando un impegno particolarmente intenso, sono difficilmente compatibili con la gestione degli impegni familiari. In alcuni casi si tratta di una scelta consapevole; molte volte, però, è il criterio di genere, e non di merito, a determinare, quasi in via automatica, l’assegnazione al professionista uomo dell’incarico delicato o di prestigio, che richiede ampia disponibilità di tempo. Questo, ritengo, perché è ancora profondamente radicato nella società italiana il pregiudizio per cui la responsabilità della gestione della famiglia appartiene alla donna; di conseguenza, anche se entrambi i genitori lavorano è comunque principalmente la donna a doversi fare carico dell’organizzazione domestica e dell’accudimento dei figli. Si tratta di un’opinione che vorremmo pensare superata dai tempi, ma che è dura a morire: solo qualche settimana fa, su queste pagine, veniva espressa da un collega (a titolo personale, voglio credere) la convinzione che, in questi tempi di crisi in cui fare l’avvocato non dà più la certezza di un reddito adeguato, sono soprattutto le donne ad iscriversi all’Albo perché possono accontentarsi di un impiego part-time e dei conseguenti introiti ridotti; mentre la professione non sarebbe più compatibile con il ruolo di “capofamiglia”.
Bene, le ragioni per cui si è verificato il sorpasso numerico delle donne nelle professioni forensi sono probabilmente altre: le donne sono, nella media, più studiose e quindi più preparate agli esami. Oltre a questo osservo che nell’Italia del 2014 i ruoli della famiglia tradizionale sono fortemente in discussione. E’ un fatto, per esempio, che con l’incremento di separazioni e divorzi sono in crescita le famiglie con un solo genitore, che nell’85% circa dei casi è la madre (dato Istat). Va detto, però, che la professione di avvocato è decisamente poco conciliabile con il part-time, e questo vale sia per le donne che per gli uomini! Fare l’avvocato comporta l’assunzione di una responsabilità enorme nei confronti dei propri assistiti e, di conseguenza, la quotidiana presenza in studio per un grande numero di ore, l’assiduità nell’attività di udienza, un impegno costante nell’aggiornamento professionale, il sacrificio del proprio tempo privato: se un assistito viene arrestato o un’azienda sequestrata, l’avvocato deve intervenire, immediatamente. Anche se è atteso a scuola per i colloqui con i genitori di fine quadrimestre. L’avvocato – mamma che non rinuncia a leggere le fiabe ai propri bambini per farli addormentare, poi a tarda sera prende il faldone del processo del giorno dopo, si prepara un caffè forte e studia per ore. E’ in gioco, oltre all’aspettativa d'una parcella adeguata all’impegno, la difesa dei diritti delle persone.

avv. Stefania Amato