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16-11-2014 11:34:28 Dei delitti e delle pene: attualità del pensiero del Beccaria

Sarebbe forse meglio attendere qualche giorno per riportare la notizia del convegno di ieri, giusto per non lasciarsi condurre sull'onda dell'entusiasmo a commenti troppo adulatori, eppure l'incontro per il 250° della pubblicazione dell'opera del Beccaria "Dei delitti e delle pene" è stato un incontro veramente fuori dell'ordinario…
Ordinari erano i tre relatori: però ordinari di diritto penale e di storia del diritto italiano…
Si tratta dei professori Alberto Cadoppi (titolare della cattedra di diritto penale all'università di Parma), Ettore Dezza (professore di storia del diritto italiano all'Università di Pavia nonché direttore del dipartimento di giurisprudenza) e Giovanni Flora (ordinario di diritto penale all'Università di Firenze).
L'incontro, organizzato dalla fondazione forense, è stato moderato dal collega Paolo De Zan, ideatore del convegno.
Se può passare una definizione "ariosa e musicale", il convegno potrebbe essere paragonato ad una concert, il concerto Beccaria in tre movimenti: andante l'intervento del prof. Cadoppi, appassionato il "movimento" del prof. Dezza e brioso quello del prof. Flora.
Questo perché l'intervento del professor Cadoppi era volto ad illustrare i profili del diritto penale sostanziale proposti dal Beccaria rivisti in chiave odierna; perché l'intervento del professor Dezza ne ha illustrato invece i profili processuali; perché l'intervento conclusivo del professor Flora ne ha rivisitato l'insieme in chiave moderna alla luce di una auspicabile riforma.
Il tutto diretto magistralmente da Paolo De Zan, direttore d'orchestra che senza prevalere sui solisti ha racchiuso in unità le tre voci mantenendo lineare con i propri brevi interventi di raccordo il filo conduttore.
Oguno dei relatori ha richiamato concetti ed esortazioni contenute nel libello del Beccaria, rivoluzionari all'epoca al punto da consigliare la pubblicazione anonima (tanto che l'opera fu rapidamente messa all'indice) eppure ancora così attuali da farci domandare come mai, dopo duecentocinquant'anni, ancora alcune idee siano di là dall'essere pienamente realizzate.
Eppure tra i tanti concetti pur diversi, vari e pregnanti che ognuno dei relatori ha richiamato citando le testuali parole del Beccaria, uno su tutti è sembrato costituire il filo conduttore che ha tenuto uniti i tre movimenti: quello dell'interpretazione della legge da parte del giudice.
Volendo sintetizzare, pur nella consapevolezza di sminuire il contenuto complessivo dell'incontro, secondo Cadoppi Beccaria chiedeva che il giudice non interpretasse ma applicasse solamente le legge, che auspicava essere precisa al punto da non lasciare troppa libertà all'opera del giudice. Ammette però il relatore che questa facoltà vien negata dal Beccaria anche e soprattutto come risposta ad un regime che fino a quel momento aveva lasciato spazio a troppi arbìtri, sia da parte dei giudici ma anche da parte della graziose maestà che ne disponevano l'applicazione: in breve ancor oggi è opportuno che il giudice abbia una certa libertà interpretativa.
Di contro il professor Dezza richiama il principio della interpretazione come già criticato da autori precedenti, specialmente francesi, che volevano il giudice una mera "bouche de la loi".
In chiave attuale invece il professor Flora critica l'usurpazione della funzione legislativa da parte delle corti nazionali, che a ciò si sentono chiamate in ragione di un'asserita (forse non solo asserita) carenza dell'organo legislativo.
Per venire tuttavia ai singoli interventi si può dire che secondo il professor Cadoppi tre sono i principi del diritto penale sui quali si è speso vivacemente il Beccaria, creando così le basi per la nascita del diritto penale moderno (paternità che al Beccaria è riconosciuta pressoché universalmente, forse più all'estero che in Italia). I tre principi son quello della legalità del diritto penale, secondo la quale un reato deve esser previsto per legge e non può esser creato a livello giurisprudenziale, quello della laicità, in base al quale non può e non deve esserci corrispondenza tra peccato e reato, in applicazione del quale la valutazione dell'animus del reo e delle sue intenzioni non devono prevalere su quelle del fatto-reato mentre il terzo, non meno importante, è quello dell'entità e funzione della pena, che deve essere pronta, predeterminata e "dolce", poiché queste sono le caratteristiche che la vedrebbero efficace in chiave preventiva, dato per assodato che per il Beccaria la funzione retributiva ha un importanza molto ridotta.
Veramente appassionato l'intervento del professor Dezza il quale, pur essendo professore di storia del diritto italiano, ha parlato come il più esperto dei processualpenalisti e con una verve da avvocato in arringa. In ciò, ha detto, è stato facilitato dalla causa scatenante del suo "ardore", che si deve alla relazione che il professor Tullio Padovani, insigne maestro, ha tenuto nel maggio scorso al convegno sul Beccaria, che si è tenuto a Livorno. Qui il professor Padovani (l'intervento è registrato e disponibile su radio radicale, come gli altri interventi del convegno) ebbe a contestare che il Beccaria sia sia mai occupato della procedura penale ed nemmeno si sia speso definitamente nella condanna alla tortura. Ebbene, l'intervento del professor Dezza è consistito in una "controrelazione" in difesa del Beccaria che, con una lezione corposa, ha enumerato i principi processuali propugnati dal Beccaria. Più di una decina, si va dalla necessaria divisione tra funzione inquirente e funzione giudicante alla assoluta residualità della "carcerazione preventiva", dalla presunzione di innocenza alle garanzie della difesa, dalla critica alla tortura come strumento per ottenere la confessione alla terzietà del giudice. In conclusione, ed in risposta all'affermazione del Padovani sul disinteresse del Beccaria per la procedura: tutti questi capisaldi processuali non sono forse quello che oggi noi chiamiamo "il giusto processo"?
L'intervento conclusivo, quello del professor Flora, ha ripercorso l'opera del Beccaria per esaminarne i passi ancor oggi così attuali da poter costituire spunto per una riforma della giustizia. Il fare brioso e vivace dell'avvocato ha prevalso su quello misurato e preordinato del professore tanto che, abbandonata la scaletta predisposta per la relazione, ha parlato a ruota libera, pizzicando come corde di un violino i nodi di una giustizia italiana forse troppo povera di interventi legislativi oculati e perciò abbandonata alla creatività interpretativa dei giudici. Per questo si imporrebbe una diminuita libertà del giudice nel tradurre la legge in sentenza, una netta distinzione tra le funzioni, tale che l'una non possa influenzare l'altra; una corretta individuazione delle fattispecie penali e di una commisurazione della pena, scevra da impulsi condizionati dalle emergenze del momento (ad esempio la paventata creazione dell'omicidio stradale); un corretto e limitato utilizzo della carcerazione preventiva come delle restrizioni nella fase esecutiva (leggasi 41bis). Non ultimo il problema della prescrizione, contraltare del canone della prontezza della pena rispetto al tempo del reato commesso, che deve esser mitigata solo in favore di un adeguato tempo per organizzare la difesa dell'imputato.
In conclusione, si è trattato di un convegno di quasi tre ore filate, senza pause, senza segni di impazienza nell'uditorio, con interventi anche scherzosi degli oratori ma sempre attenti alla delicatezza degli argomenti trattati, insomma, un convegno davvero livello tanto alto, che non sarà facile da raggiungere e replicare ma di certo rassicurante e di forte incentivo alla realizzazione di nuovi incontri.